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sabato 7 gennaio 2012

VISITA AI PRESEPI

Lo confesso, non avevo mai prestato molta attenzione ai presepi. Da bambini io e i miei fratelli avevamo l’abitudine, durante le feste di Natale, di sistemare la grotta della Natività e alcune figurine di angeli e pastori su una superficie piana, (un tavolino, un cassettone o un semplice ripiano in legno), lo facevamo per gioco e senza concentrarci molto sul significato simbolico di ciò che stavamo realizzando. Gli stessi pastorelli sono stati utilizzati anche dai miei bambini che si divertivano a fare camminare i vari personaggi lungo un percorso di strade che mio marito segnava con dei sassolini su un foglio di carta marrone. Ricordo che solo la Sacra Famiglia rimaneva ben ferma nella sua posizione dentro la grotta della Natività, mentre tutti gli altri personaggi erano in continuo movimento. Quando i ragazzi sono cresciuti, non ho più avuto voglia di fare il presepe, né mi sono curata più di tanto dei presepi degli altri. La consideravo una cosa faticosa e per nulla appagante.
Devo all’associazione culturale Alchimie la mia riscoperta del presepe non solo come struttura scenica tradizionale ma anche come evocazione simbolico-religiosa realizzata nell’ambito di una famiglia o di una piccola comunità. Quest’anno l’associazione, in occasione del Natale, ha bandito un concorso dal titolo “Un amore di presepe” e mai titolo m’è sembrato più significativo di questo. Visitando alcuni presepi allestiti presso famiglie mi sono infatti resa conto che solo un sentimento d’ amore può spingere gli artefici a creare delle strutture, anche grandiose ed ingombranti, con un unico obiettivo, quello dell’ amore verso un bambinello sistemato in una stalla. Il risultato delle fatiche di chi ha allestito il presepe è il riconoscimento di parenti e amici che il loro presepe è molto bello, è un amore, secondo l’accezione profana del termine.
La visita ai presepi mi ha dato modo di riflettere sul significato umano e simbolico che la rappresentazione scenica rappresenta; è un’umanità in cammino la nostra, una umanità che vuole trovare nel mistero della Nascita di un bambinello delle precise risposte sul significato della vita. Così mi sono messa anch’io in cammino verso la grotta della Natività in compagnia delle tante figurine del presepe e le ho trovate simili a me, la lavandaia, la fruttivendola,il pastore dormiente, ho bevuto l’acqua delle fontanelle e provato a camminare lungo i viottoli scoscesi.
La condivisone del sentimento religioso degli artisti realizzatori mi ha dato la possibilità di riconciliarmi con il presepe.

(MARIA GRAZIA VITALE)


LA MAGIA DEL PRESEPIO
(di Giuseppa Ripa)

Era ugualmente bello il nostro Presepio, fatto di piccole cose, semplici e umili; di quelle piccole cose che la mamma riusciva a racimolare nei giorni antecedenti all’8 dicembre grazie anche alla generosità dei vicini. I rami di agrumi coi loro preziosi frutti a fare da cornice; il muschio che le generose piogge autunnali avevano rinverdito a segnare i bordi dei viottoli di campagna; i sassolini raccolti in spiaggia e i “lapilli” espulsi dall’Etna – sapientemente conservati dagli anni precedenti – a fare da letto per il fiume e da angolo roccioso accanto alla capanna.

I pastorelli di terracotta, fragili e di bella fattura, arricchivano lo scenario. Ogni anno qualcuno veniva meno per via della sua fragilità e sempre più spesso la mamma doveva ricorrere a qualche piccola riparazione per riattaccare ora questo braccino della lavandaia, ora quella zampetta dell’asinello. Ma tutto sommato, per anni abbiamo rinnovato la gioia di rivedere il caciottaro coi suoi calzoni alla zuava color senape e le sue caciotte appese al collo; Mastru Innaru avvolto in un mantello nero che si scaldava al suo braciere; la lavandaia, i pastorelli, le pecorelle che richiedevano costantemente la nostra pazienza nel metterle ritte in piedi.La Natività col bue e l’asinello occupavano, naturalmente, il posto d’onore.

Tutto era pronto l’8 dicembre. Poi si aspettava il 16 per iniziare la novena e fino al 24, ogni sera prima di cena, la famiglia si riuniva attorno al Presepio. Papà tornava un po’ prima del solito per non mancare all’appuntamento serale, la mamma prendeva la sua coroncina di grani di madreperla per il rosario e noi 7 figli ci si disponeva tutti intorno, pronti a partecipare.

Le luci in casa venivano spente e bastavano solo i luccichii delle lucine del Presepio per creare quell’atmosfera magica nella quale ci calavamo con un senso di pace, di gioia e di calore, qui, dove batte il cuore.

Una piccola stufa elettrica con due serpentine incandescenti – solo da pochi anni avevamo smesso di usare il braciere – riscaldava l’ambiente. Ben poca cosa per le fredde sere invernali, ma a noi bastava.

Al termine del rosario veniva il momento più bello che attendevo con più ansia. Papà e mamma intonavano le canzoni natalizie, quelle più comuni per quei tempi, quando ancora Jingle Bells, la Coca Cola, la TV non erano minimamente pensabili a casa nostra.

’A Susanedda – la contadina che scendeva dalle montagne con un cesto sul capo colmo di noci e castagne; e poi Dormi Gesu e fai la vo’  – la ninna nanna per Gesù Bambino. Noi figli si ascoltava in estasi la melodiosa voce di nostra madre e poi si concludeva tutti insieme con Tu scendi dalle stelle.
(Giuseppa Ripa)


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domenica 18 dicembre 2011
ALLO SPECCHIO

Mi sveglio intontita dopo una notte insonne. La testa mi brucia, mille pensieri hanno invaso la mia mente. Non sono riuscita a spegnere l’interruttore della sala cinematografica che si trova dentro di me e che proietta continuamente i suoi film. Un clic e mi sarei buttata fra le braccia di Morfeo. Un clic e avrei dormito come un angioletto.

Suoni, parole dette e non dette,
respiro affannoso,
timido scorrer di ciglia,
lava infuocata bruciante
del mio vulcano interiore
Ho atteso rumori,
echi di vite diverse
scanditi dal tempo che passa
e porta con sé le mie angosce.

Ora, davanti allo specchio del bagno, sempre lo stesso da più di trenta anni, mi guardo come se mi vedessi per la prima volta. Mio Dio, come sono cambiata! Da quando? da ieri, da un mese fa, dall’anno scorso….
Mentre mi asciugo il volto, arrivano rapidi dei sovrappensieri che si accavallano ai primi.
Quanti anni ancora mi restano? Dieci o venti. Forse trenta, se arrivo all’età di mia madre.
Lo specchio mi rimanda l’immagine di una donna stanca. Sarà colpa della nottataccia,mi dico, sarà lo stress accumulato durante l’ultimo periodo di vita di mia madre, sarà qualcosa altro, non so.
Gli occhi hanno perso la vitalità d’un tempo, mi sembrano un po’ spenti, faticano a rimanere ben aperti, sono occhi stanchi, da sessantenne sempre alla ricerca degli occhiali che non sa mai dove ha posato. Chi o che cosa mi ha sottratto la bellissima capacità di leggere senza occhiali da vicino ed anche da lontano?
In classe leggevo benissimo senza occhiali e non è passato poi molto tempo! O forse sì?
Ero convinta che i miei occhi sarebbero rimasti sempre perfettamente funzionanti, sani e vitali come tutte le altre parti del corpo.
Specchio, specchio delle mie brame, quando è cominciato il declino e perché non me ne sono accorta?

Gli occhi di mia madre, nel suo ultimo periodo di vita, erano diventati liquidi, trasparenti. Sembrava che dovessero sciogliersi da un momento all’altro.
Il suo sguardo era fisso, immobile, non vedeva nulla di ciò che le stava attorno. Non mi vedeva. Non vedeva la vita che le si svolgeva attorno. Non sentiva il suono della mia voce che pure aveva sempre riconosciuto; era morta ancora prima di morire e le nostre strategie per mantenerla in vita erano solo un rimedio artificioso.

Socchiudo gli occhi per osservarmi nell’insieme, evitando i particolari che manifestano segni di vecchiaia.
Come e quando sono avvenute le trasformazioni che mi hanno fatto diventare la donna che sono adesso?
E come ho fatto ad invecchiare senza accorgermene?
Ho la vaga impressione che i pensieri, riempiendo la mente, riescono a dare un’impronta al viso.
Sono gocce d’acqua, i miei pensieri. Goccia dopo goccia possono formare una pozzanghera, uno stagno, un lago o un mare.
Oggi però sono di fronte ad un mare inquinato. Vedo tutto nero.
Mi sento invadere da una sensazione di completa impotenza di fronte allo scorrere veloce del tempo ed ai cambiamenti che si sono prodotti e continuano a prodursi in me.

Anche lei, mia madre, si sentiva impotente di fronte alla tempesta che stava per travolgerla. Nei primi tempi dell’affermarsi del male reagì con la paura ed il sospetto. Sospetto per tutto quanto di pernicioso potesse venirle dall’esterno.
Il suo male l’aveva dentro, nelle cellule in decomposizione, ma lei lo vedeva solo all’esterno. Aveva paura di possibili ladri, di estranei che potevano intrufolarsi nella sua casa, aveva paura di perdere la sua amata indipendenza.

Osservo il mio corpo. La pelle non è più compatta, tende a raggrinzirsi in qualche punto. Rughe e rughette attorno agli occhi e il collo sembra quello di una gallina. Sembra che tutte le parti di me, ogni cellula, ogni tessuto, ogni piccola parte, avendo come programma l’invecchiamento, sappia esattamente cosa fare e come comportarsi.
Il respiro mi sembra l’elemento più prezioso.
Quello che tiene armoniosamente insieme le parti del corpo.
Assisto ai miei movimenti come se fossero le azioni di qualcun altro.

Il viso di mia madre, nel periodo successivo alla prima fase, quella della paura, si trasformò in una maschera. Era entrata nella fase aggressiva.
Non voleva in casa donne che l’aiutassero. Cacciava tutti brandendo il bastone. Poi, con qualche goccia di calmante, la donna energica e sempre vivace si trasformò in bambina remissiva.

Provo a fare dei movimenti di ginnastica. Alzo le braccia, le spingo in avanti, saltello sui piedi. Occorre fare un po’ di dieta. Il corpo si sta appesantendo.
Il tempo. Irriducibile nemico.
Purtroppo però è sempre sera, sempre la fine del mese, sempre la fine dell’anno. Le settimane vanno via come i giorni, i mesi come le settimane.
Forse la mia vita è stata un sogno.

Anche quello che è successo a mia madre si è svolto come un sogno. Un sogno durato dieci anni, giorno dopo giorno. Dieci anni di buio della mente, fino allo spegnimento totale.
E’ diventata bambina. Intere giornate trascorse a mettere insieme i lembi di una coperta fino a comporre un fiore.
Con il declino, è iniziata l’immobilità. Era come se una valvola si fosse chiusa nel suo petto e non avesse più lasciato passare i messaggi della vita.
Esisteva solo la sua realtà, molto circoscritta e quasi inesistente.

La mamma della mia vita
si è trasformata in mia figlia.
Abbiamo invertito le parti
in un unico flusso di amore.

Un tremito mi scuote il busto, un accenno di trasalimento che il ricordo di quei giorni ha reso visibile all’esterno. Paura. Paura di ciò che anch’io non sarei capace di controllare.
Faccio movimenti lenti, al rallentatore. Le braccia al petto, come mia madre nei suoi ultimi giorni.

Braccia inchiodate, rigidamente impostate, dure come macigni. Le gambe piegate da un lato, il corpo rattrappito.

Come facevo prima a fare tutto di corsa?
Non avevo molto tempo da dedicare allo specchio. Qualche minuto per un trucco sommario ed ero pronta ad affrontare il mio quotidiano. Bambini, lavoro, compiti da correggere a casa, pranzo, cena … chi pensava ad osservare i cambiamenti del corpo?
La mia immagine di quei tempi quasi non la riconosco. Capelli cotonati, vestiti goffi, larghi, sorrisi con denti cariati…
Mi piaccio di più adesso.
Allora però avevo sempre accanto i miei bambini. I miei bei bambini.
Specchio, specchio delle mie brame, dove sono finiti gli abitanti del reame?

Mia madre, prima di cadere nelle grinfie dell’Altzeimer, sembrava invulnerabile. Saliva e scendeva le scale di corsa, raccontava le sue piccole cose in modo ridondante, parlava, parlava, sempre pronta a difendere il suo territorio come un cane mastino che teme di essere attaccato.

Fra non molto l’occhio si appassirà un po’ di più, la mia bocca perderà il suo tono, la pelle si piegherà in mille solchi e, senza accorgermene, entrerò nell’ultima fase della mia vita.
Ma chi se ne frega?
Posso decidere di vivere in modo positivo, a dispetto di tutto.
Crearmi un giorno fantastico, entrare nelle sfere della mia memoria letteraria magari, ripetere mentalmente una bella poesia classica o canticchiare una canzone fra le poche che conosco.

Debbo togliere l’espressione dura che a volte si addensa tra le sopracciglia come una nube minacciosa. Un sorriso a tutti denti ed il viso si illumina. A sorridere di più è il mio programma. Assumere anche l’aria un po’ divertita, da attrice che recita in una commedia. La commedia della vita.
Come fanno gli attori quando provano le loro recite? Si mettono davanti ad uno specchio e parlano adeguando il viso alle battute da recitare. Atteggiamento accigliato, di rabbia, di disapprovazione, di rammarico, sorriso accattivante, espressione d’amore, tenerezza e così via.
Potrei farlo anch’io; fingere, mostrare di essere quella che non sono e sentirmi “altro” da me stessa.
Voglio guardare il sole, come ho fatto ieri, seduta su una panchina del lungomare.

Guardando il sole che muore,
palla infuocata sul mare,
l’occhio si riempie di luce
ritrovo lontani pensieri d’amore
vibranti scintille nell’aria serena
portano pace nel cuore.

Mi rincantuccio dietro le palpebre sollevate ed inquadro nuovamente l’immagine riflessa. Ora mi sento un po’ meglio e mi sento pervadere da una forte sensazione di non so che.
Non so che.
Forse è iniziata, a sessanta anni, la stagione più importante della mia vita.
Mentre pettino i capelli schiariti dalle meches, sorrido e faccio le prove generali di come appaio all’esterno. Non c’è male!
Un po’ di luce al viso, un rossetto colorato, uno sguardo d’insieme… e via verso la mia giornata da pensionata.
(MARIA GRAZIA VITALE)